di Filippo Buccarelli
Post pubblicato anche su demoKrazy.
Così, la riforma del mercato del lavoro “Fornero” è finalmente legge. Da una parte il Governo, che ha voluto questo provvedimento – auspicato (forse sarebbe meglio dire “preteso”) dalla UE sin dall’Estate di un anno fa – prima del cruciale vertice europeo di queste ore in modo da poter imporre credibilmente il proprio piano di riforma delle istituzioni politiche ed economiche comunitarie, dall’altra le Parti Sociali del nostro Paese, entrambe dettesi insoddisfatte per una normativa ancora troppo rigida secondo Confindustria, ormai esageratamente flessibile e liberista per i Sindacati. In mezzo, la classe politica italiana, divisa fra i partiti più o meno antieuropeisti come Lega, Italia del Valori e Movimento “Cinque Stelle”, SEL, Rifondazione Comunista, e partiti di maggioranza “di emergenza nazionale” (PD, PDL e Terzo Polo), (apparentemente) convinti, pur fra mille distinguo, che si tratti di un articolato necessario per mettere il nostro mercato del lavoro al passo con quello degli altri e per gettare le basi di una comune strategia europea per l’occupazione e la sicurezza sociale. Sullo sfondo, infine, un’opinione pubblica prostrata dalla grave crisi economica e finanziaria di questi ultimi cinque anni, e sempre più sfiduciata sulle possibilità di una ripresa a breve termine (a Giugno 2012, ultimi dati Istat, il clima di fiducia dei consumatori italiani – un indice costruito a partire dalle risposte campionarie ad una serie di domande circa previsioni sulla futura situazione economica, occupazionale, tenore di vita personale e familiare ecc. -cala, fatto 100 il dato del 2005, dal 93.7 del Febbraio di quest’anno all’85.3 di Giugno).
Le posizioni in campo non sono insomma certo le più pacate e distaccate per un’analisi oggettiva dei pro e dei contro di questo Decreto. Può essere allora utile cercare di inquadrare le novità introdotte – e la loro effettiva portata – nel più ampio dibattito che da almeno venti anni si è sviluppato intorno al tipo di interventi più efficace per contemperare dinamicità imprenditoriale e sicurezze sociali su un mercato dei beni e degli impieghi sempre più a scala globale ed informato ai principi versatili della così detta “economia dell’adeguatezza” (o “post-fordista” o “post-industriale” o post-moderna, comunque la si voglia chiamare). E’ un tipo di valutazione che non può avere un semplice taglio economicistico, quasi che il lavoro sia soltanto un semplice fattore di produzione perfettamente rispondente alla sola logica salariale del libero gioco fra domanda ed offerta. Su di esso si giocano buona parte dei processi di costruzione delle identità sociali e personali degli individui, e quando le questioni assumono un significato identitario smuovono paure, speranze, aspettative, credenze e convinzioni che cambiano la percezione degli interessi coinvolti (propri ed altrui) e spingono a scelte spesso imprevedibili e all’apparenza incomprensibili. Con questo, nemmeno si può pensare che quei timori e quelle infatuazioni siano la sola cartina di tornasole per l’individuazione della strada da imboccare. Ciò che appare oggi irragionevole – soprattutto dal punto di vista di chi vive sulla propria pelle difficoltà e rischi di marginalizzazione – può non di meno rivelarsi sul più lungo periodo la cosa più razionale da fare, e solo in un futuro prossimo potrebbe essere riconosciuto come ciò che tutti avrebbero desiderato. Certo, non c’è alcuna certezza al riguardo, ma questo vale sia per le visioni più pessimiste e catastrofiste, sia per quelle più fiduciose e “palingenetiche”.
Ora, se si vuol comprendere quanto sta accadendo e cosa questo potrebbe significare in futuro, occorre misurarsi con la così detta prospettiva della flexicurity. Si tratta di un’impostazione nata alla fine degli anni Novanta in Olanda per indicare una programma politico di riforma del welfare state (ancora pensato come basato sull’accesso al mercato del lavoro remunerato) in grado di garantire al contempo flessibilità produttiva delle imprese e reti di protezione sociale per i lavoratori (dipendenti così come autonomi ed imprenditori). Nei primi anni del decennio appena trascorso, l’espressione entra nei documenti ufficiali dell’Unione Europea con riferimento stavolta ad una precisa esperienza nazionale, quella della Danimarca, che nel giro di poco tempo – in una congiuntura di accentuata stagnazione e disoccupazione, soprattutto in Germania e nei Paesi anglosassoni – fa registrare non solo forti variazioni percentuali positive del Pil ma anche alti tassi di occupazione, una radicale diminuzione del numero dei senza lavoro ed un’elevata attivazione dei singoli verso la ricerca di un impiego. I “pilastri” di questa strategia – ben presto diventati orientamenti comunitari, pur nel rispetto della diversità di soluzioni apportate dai singoli Stati membri in rapporto alle specificità delle tradizioni nazionali giuslavoriste e di relazioni industriali – sono sostanzialmente tre:
-
una maggiore flessibilità esterna (libertà di licenziamento), interna (versatilità degli orari) e funzionale (polivalenza professionale e modularità di inquadramento) garantita alle imprese grazie al superamento di molti vincoli all’assunzione o alla dismissione di personale, nonché al graduale abbandono di semplici politiche di difesa del posto di lavoro (il job);
-
un aumento degli investimenti nelle così dette politiche attive del lavoro, ovvero in quelle misure di sistema – ad esempio la riorganizzazione efficiente dei servizi all’impiego e dell’offerta di formazione professionale – finalizzati ad accrescere l’occupabilità delle persone e a rendere loro disponibili una continuità nelle opportunità di impiego capace di salvaguardare il loro diritto/dovere all’attività lavorativa (il work) piuttosto che la loro permanenza automatica in una singola posizione produttiva o in una stessa azienda;
-
infine, lo sviluppo di un generoso sistema di sostegno al reddito – finanziato, di concerto con le Parti Sociali, dalla fiscalità generale ed articolato in una pluralità dibenefits sulla base di una chiara distinzione fra interventi assicurativi (indennità di disoccupazione) e strumenti assistenziali (sussidi sociali) – pensato per sostenere economicamente singoli e famiglie nei più o meno lunghi periodi di perdita del lavoro ma tendenzialmente fruibile solo a condizione di un comprovato impegno dei soggetti a riqualificarsi e ad accettare nuove opportunità di occupazione.
Se questi sono i principi guida della “flessicurezza” nordeuropea (orientamenti simili si ritrovano anche nei Paesi scandinavi), non meno importanti sono alcune condizioni di fondo che secondo molti autori ne consentono l’applicabilità e, per alcuni di essi, rappresentano il vero banco di prova della loro esportabilità. La prima è di natura economica e riguarda la struttura di quei sistemi produttivi, contraddistinti da un lato da una prevalenza di imprese di medio-grandi dimensioni (dunque più saldamente capitalizzate ed in grado di sostenere una parte dei costi elevati di un tale meccanismo di cittadinanza), dall’altro da un ampio settore terziario (in particolare pubblico) in grado di garantire su larga scala prestazioni sociali, di accompagnamento al lavoro e di contemperamento dei tempi di vita e dei tempi professionali. Altra caratteristica è l’assenza sostanziale di “dualismi” nei mercati delle occupazioni remunerate, di disuguaglianze cioè che contrappongano un nucleo centrale di impieghi ben pagati e sindacalmente garantiti e, all’opposto, un’ampia e variegata area di situazioni contrattuali flessibili e precarie, poco remunerate ma tendenzialmente prive di protezioni e di ammortizzatori sociali. I veri requisiti si giocano però sia sul piano politico che su quello culturale, con – nel primo caso – un sistema di relazioni industriali (organizzazioni dei lavoratori, associazioni imprenditoriali, istituzioni statali ai loro diversi livelli di decentramento) certo conflittuale ma, nei momenti di emergenza, collaborativo e partecipativo, con la diffusione invece nel secondo di orientamenti valoriali (di derivazione protestante) che enfatizzano l’intraprendenza e la responsabilità personali ma che si traducono al contempo in un forte senso del bene comune che va comunque salvaguardato anche nel legittimo perseguimento del proprio interesse utilitaristico.
Ora, nel corso di questi ultimi anni i temi della flexicurity sono stati per forza di cose (più a parole che nei fatti) al centro del confronto italiano. Il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro prende avvio nel corso degli anni Ottanta, con la disciplina dei contratti a tempo determinato, di quelli part time e di quello di apprendistato. Durante gli anni Novanta, i servizi per l’impiego – prima rigorosamente centralizzati e basati sugli Uffici di collocamento e (almeno in teoria) sulla chiamata numerica – vengono gradualmente decentrati, con un primo passaggio di competenze alle Regioni ma nel quadro di una strategia lenta, contraddittoria e nient’affatto supportata da una riforma della Pubblica Amministrazione. Il 1997 è un anno cruciale, perché prima i disegni di legge dell’allora Ministro della Funzione Pubblica Franco Bassanini, poi la Legge sul lavoro di Tiziano Treu, sanciscono una riorganizzazione delle prestazione di assistenza e di avviamento al lavoro, ed introducono per la prima volta modalità contrattuali compiutamente atipiche, come il lavoro in somministrazione interinale o le collaborazioni coordinate e continuative parasubordinate. In questa fase – che si completa nel 2003 con l’approvazione della così detta Legge “Marco Biagi” – l’accento è posto su quella parte della parola “flessicurezza” che rinvia all’esigenza di garantire alle aziende versatilità nella quantità e nella qualità dell’impiego di manodopera. In una fase storica nella quale la necessità è di adeguare in tempo tendenzialmente reale l’offerta di beni e servizi ai cambiamenti repentini e su scala sempre più internazionale della domanda, la preoccupazione prevalente è stata quella di moltiplicare le modalità contrattuali di impiego, senza tener troppo conto del bisogno di sviluppare di pari passo un nuovo sistema di sicurezze sociali altrettanto modulare ma solido ed organico.
Oggi – all’indomani della grave crisi economica e finanziaria che, al di là di riprese congiunturali più o meno lunghe, dura da almeno un decennio – la questione si pone in modo completamente diverso. Ciò che è andato irrimediabilmente in stallo non è soltanto un modo di produzione ispirato al così detto “turbo-capitalismo” (l’espressione è di Luttwak, e si riferisce ad una divisione internazionale del lavoro, con decentralizzazione delle fasi esecutive del ciclo produttivo nei Paesi periferici del globo e salvaguardia di quelle di ideazione e di progettazione nei Paesi occidentali; ad una crescente finanziarizzazione del capitale; ad un ridisegno su scala globale delle geometrie del consumo: ostentativo e personalizzato nelle aree centrali del mondo, di massa in quelle invece marginali) ma è al contempo lo stesso Modello Sociale Europeo sino a quel momento immaginato e in parte sperimentato. L’innovazione tecnologica – di processo e di prodotto – ha solo in parte portato ad una riqualificazione del lavoro. Le economie “metropolitane” – nota Saskia Sassen – si caratterizzano sì per fabbricazioni ed erogazioni di servizi altamente (ri-) professionalizzate e ad elevato valore aggiunto ma – intorno a questi centri “di eccellenza” – anche per una crescita di attività manuali poco specializzate, a bassa produttività, mal pagate e precarie, come certi servizi alle imprese (pulizie, magazzinaggio, logistica e trasporti) o al consumatore (fast food, grande distribuzione commerciale, assistenza sociale ed educativa a buon mercato). Il ridisegno e la ri-dislocazione delle fasi produttive non ha poi seguito quelle geometrie integrate e coordinate accennate sopra. Paesi “ai confini” come la Cina, l’India, il Brasile non hanno solo costituito gli “estremi manuali” della filièra internazionale ma hanno saputo imporsi come potenti concorrenti anche nei segmenti più sofisticati della produzione, mentre le economie occidentali hanno replicato al loro interno quelle segmentazioni che pensavano bene di poter esportare, e sono state interessate a propria volta da un radicale aggravamento delle disuguaglianze sociali. Ciò che nel Vecchio Continente e in quello Nordamericano è stato rimesso in discussione sono i meccanismi stessi di inclusione nei circuiti della cittadinanza politica e sociale. In una prolungata congiuntura che sembra riproporre il paradosso della jobless growth -con una crescita peraltro come detto compressa al ribasso e con caratteristiche del tutto inedite di questo fenomeno: l’aumento della disoccupazione pare non avvenire al netto degli impieghi più qualificati, come si pensava sino a quel momento, ma riguarda anche i profili più alti oltre a quelli in fondo alla scala delle mansioni più manuali e ripetitive – ha ancora senso parlare del lavoro come del principale dispensatore di risorse (retributive, di autorità, di prestigio sociale) o le politiche di integrazione sociale devono mirare a sganciare l’insieme dei diritti e dei doveri personali e collettivi dal ruolo professionale commercialmente remunerato svolto dai singoli?