Nov 8

La paura del lavoro

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di Filippo Buccarelli

Post pubblicato anche su demokrazy.

Forse sta nel suo stesso significato profondo, rivelato dalla sua derivazione terminologica: labor, “fatica”, ma ciò che da sempre caratterizza il lavoro è la paura. La paura di doverlo sopportare, quando alienante, la paura di poterlo perdere quando – per quanto dequalificato – ci si rende conto che non se ne può fare a meno. Anche lo stesso Marx alla fine lo riconobbe, nel momento in cui – nel Terzo Libro de “Il Capitale” – arrivò ad ammettere che quell’attività non sarebbe stata sopprimibile, e che tutt’al più la si sarebbe potuta rendere più vivibile organizzandola in forma sostanzialmente cooperativa ed ampliando il più possibile a suo discapito il “regno della libertà” o del tempo libero. A distanza di meno di un secolo, Lazarsfeld – studiando la disoccupazione in una piccola cittadina austriaca nella quale l’unica grande fabbrica aveva chiuso i battenti – spiegò il senso non solo economico ma soprattutto psicologico ed esistenziale di quel fare. Senza quegli orari che scandivano “militarmente” le loro giornate, senza quel “mondo della vita” che nasceva anche nelle pieghe dell’organizzazione impersonale, gli individui – in particolare gli uomini – finivano per perdere il significato stesso dello spazio e del tempo, e la stessa consapevolezza di se stessi. Non era solo questione di alienazione. Era questione di senso dell’“Io” e del “Noi”, e del fatto che l’uno si costituisce solo in rapporto all’altro.
Oggi – nell’Europa falcidiata dalla crisi – questa paura si ripropone. Ma è una paura di una qualità diversa, come di una qualità diversa è questa recessione. I numeri rendono l’idea ma non la esauriscono affatto. Nel 2011 (dati Eurostat), a fronte di un tasso di occupazione che nell’Area Euro a 17 Paesi era del 64,2%, l’Italia fa registrare un 56,9%, con il valore femminile al 46,5% contro la media UE del 58,2%. All’estremo più alto i Paesi del Nord Europa: la Germania (72,5%), la Danimarca (73,1%) la Svezia (74,1%) e l’Olanda (74,9%), a quello più basso le Nazioni mediterranee (oltre alla nostra, la Spagna: 57,7%), con Francia e Regno Unito intorno alla media (rispettivamente il 63,8% ed il 69,5%). Ma è il dato della disoccupazione che colpisce. Rispetto ad una cifra UE di riferimento del 10,2%, Danimarca (7,5%), Germania (5,6%), Olanda (4,4%) e Norvegia (3,1%) presentano i dati più contenuti, la Spagna quello più elevato (22,2%) e l’Italia una cifra vicina alla media (9,6%) ma con una diffusione del fenomeno che da noi colpisce soprattutto i giovani (15-25 anni: 29,1%, rispetto ad esempio alla Danimarca: 14,2% e alla Germania: 8,6%) e le donne (in Italia il 10,2%, in Danimarca il 7,5% ed in Germania il 5,6%).
Come dicevo, i numeri complessivi rendono però solo in parte l’idea, e nascondono realtà qualitative ed istituzionali che graduano sensibilmente la gravità della situazione. Occorre metterli in relazione, e dotarli di una dinamicità – quando possibile, anche nel tempo – che consenta di svelare i diversi problemi che traspaiono dietro lo stesso valore. Ad esempio, è vero che l’incidenza percentuale di coloro che cercano un impiego sul totale delle forze di lavoro è abbastanza simile in Italia (nel 2011 l’’8,4%) in Svezia (il 7,5%) e negli Stati Uniti (l’8,9%) ma se proviamo (elaborazioni Ocse 2008) a rapportare la percentuale di disoccupati che ogni mese trovano un’occupazione a quella simmetrica di occupati che transitano allo stato di disoccupazione vediamo come il nostro Paese sia quello con il mercato del lavoro più rigido ed impermeabile (i due valori sono grosso modo lo 0,5% in entrambi casi), e come Svezia e Stati Uniti manifestino invece quote di transizione da una condizione all’altra molto più alte (in Svezia, ad esempio, ogni mese riesce a trovare un impiego il 30% di chi lo cerca, mentre chi lo perde è poco meno dell’1,5%, mentre negli Stati Uniti la mobilità è ancora più accentuata, con quei valori rispettivamente a poco meno del 60% e del 3,5%). Ancora, quanti in Italia lavorano part time o a tempo determinato sono nell’anno appena trascorso il 15,5% ed il 13,4% (rispetto alla Danimarca e alla Germania con circa il 26% entrambe nel primo caso, con l’8,8% ed il 14,7% nel secondo) ma mentre là queste così dette forme flessibili di occupazione sono esaurite da poche modalità contrattuali, da noi queste non solo sono più numerose (dal tempo determinato tradizionale all’apprendistato, ai contratti di solidarietà, a quelli in somministrazione a quelli infine a progetto o parasubordinati- e sono soltanto alcuni) ma tendono anche a sovrapporsi, in una giungla di soluzioni che raggiunge diverse decine di unità e che configura in molti casi una vera e propria trappola del precariato (se nel Marzo 2008 – ad esempio, dati Istat – su cento occupati che un anno prima lavoravano con un contratto atipico, 21 operavano in quel momento con uno a tempo indeterminato, 55 con ancora con la medesima modalità di assunzione e 16 si erano ritrovati senza lavoro, nel Marzo del 2010 su cento atipici l’anno prima solo 14 avevano visto trasformato il loro contratto in uno standard, 59 erano ancora invece nella stessa condizione di partenza e ben 21 si erano ritrovati senza un impiego).
Ora, in questi giorni è in discussione al Senato il Progetto di riforma del mercato del Lavoro del Governo Monti. Si tratta di un testo sul quale le Parti Sociali si sono confrontate per circa due mesi, con concessioni e irrigidimenti che hanno portato ad una piattaforma per molti aspetti ancora emendabile ma con un’impostazione complessiva che tende finalmente ad affrontare i nodi sostanziali, strutturali, che le cifre sopra brevemente riportate contribuiscono a mettere in luce. Il tema è delicato, perché tocca la vita di tutte le persone: di coloro che il lavoro ce l’anno, di coloro che lo stanno faticosamente cercando ma soprattutto di coloro – giovani ancora inseriti nel circuito scolastico ed universitario – che presto si affacceranno definitivamente al mondo della produzione, e che le attuali cifre della disoccupazione giovanile rischiano di scoraggiare e di far ripiegare su stessi (oggi, al Marzo 2012 , i 15-24enni alla ricerca di un impiego sono ben il 36%, con percentuali più alte di oltre la metà nelle regioni meridionali e con punte particolarmente elevate per le ragazze). Ma è delicato anche perché non riguarda soltanto la dimensione economica ed il potere di acquisto dei singoli e delle loro famiglie ma in particolare l’equilibrio emotivo ed esistenziale degli individui. L’aumento dei casi di suicidio di lavoratori più o meno adulti che hanno perso l’impiego o di piccoli imprenditori che hanno visto la loro azienda fallire è solo un tragico aspetto della questione. Quello meno visibile – rivelato da quel fenomeno – è lo stato d’animo di autentica paura che la perdita del posto (o anche soltanto il suo rischio) qui in Italia suscita nella gente. Il punto è che in un Paese come il nostro, in cui la sicurezza dell’impiego è culturalmente, giuridicamente e praticamente ancora identificata da parte delle Istituzioni con il possesso di un’occupazione a tempo indeterminato e continuativo, e tendenzialmente inamovibile grazie ad un apparato normativo e giurisprudenziale orientato a salvaguardare ad ogni costo il legame del lavoratore con la sua azienda, la prospettiva di fuoriuscire dai canali produttivi è inevitabilmente vissuta come una condanna pressoché definitiva.
Naturalmente, si tratta di una chiave interpretativa, alla quale – soprattutto per la sua radicalità – se ne contrappongono ben altre. Alcuni – ad esempio recentemente Gallino, ma all’estero anche studiosi come Sennett, Beck e Bauman – sostengono che il problema non sono tanto gli ordinamenti giuridici che disciplinano i mercati del lavoro quanto i meccanismi stessi di funzionamento dell’attuale sistema capitalistico internazionale, sempre più finanziarizzato, delocalizzato, preoccupato dei dividendi degli azionisti e dimentico della qualità della vita di quell’unica risorsa – il lavoro – che per sua stessa definizione (si tratta di persone in carne ed ossa, legate da affetti e cultura ad uno specifico territorio) non può essere altrettanto mobile e adattabile. La paura del lavoro – suggeriscono – è al contempo la trasposizione e la causa dei timori di una crescente incertezza esistenziale, determinata dall’indebolimento delle routine quotidiane, dalla conseguente scarsa capacità dei singoli di progettare con ragionevole certezza la propria vita e dall’inevitabile disagio che un cambiamento apparentemente continuo, “fluido”, veloce, spesso imprevedibile, per forza di cose produce nello stato d’animo degli singoli. Di fonte ad una tale “liquida” tardo-modernità, la soluzione non può dunque consistere in parziali escamotage di tipo formale ma in una profonda riforma dell’economia e degli stili di vita personali, nonché nell’immediato (si tratta ad esempio della proposta, fra il provocatorio e la sfida, che Gallino ha lanciato nell’assise di fondazione del “nuovo soggetto politico” ALBA: Alleanza, Lavoro, Beni comuni e Ambiente) nell’adozione di politiche industriali d’ispirazione keynesiana, con la devoluzione dei finanziamenti del Fondo Sociale Europeo alla copertura dei costi per un’assunzione di massa in lavori socialmente utili, governata dai Sevizi dell’Impiego ed attuata in buona parte attraverso le organizzazioni del Terzo Settore. Si intravedono sullo sfondo – benché in modo a volte più diretto, a volte più esplicito – le riflessioni antiutilitariste del Mauss (Mouvement Anti-Utiltariste en Sciences Sociales) che – per bocca di Latouche – auspicano l’avvento di una fase di “post-sviluppo”, basata su un pilotaggio politico verso la “decrescita” e sulla diffusione di nuove (o antiche?) forme di produzione e di scambio di tipo sociale, solidale e “civile”. Ed ancora più indietro fanno capolino le tesi – in buona parte smentite, salvo la loro anche recente riproposizione con un aggiornamento delle previsioni ma anche con un più cauto spostamento nel tempo della loro realizzazione – del “Club di Roma”, un gruppo di economisti, storici, scienziati sociali che negli anni Settanta, “dati alla mano”, provò a preveder gli scenari futuri pronosticando il collasso sociale, economico ed ambientale entro il 2000 se non ci si fosse subito avviati lungo un modo diverso di gestire i rapporti (in senso lato) tra gli uomini e la natura.
Ora, come sempre succede, molte di queste analisi sono in parte fondate. Dicevo all’inizio che l’attuale crisi economica e finanziaria è di una qualità diversa da tutte quelle sinora conosciute. Si dice in genere che un suo precedente è quella degli anni Trenta del secolo scorso, cui peraltro seguì la Seconda Guerra Mondiale e dalla quale si uscì da un lato con l’adozione del modello tecnico e sociale taylor-fordista e dall’altro con la diffusione dei sistemi di welfare state per come li abbiamo sin qui conosciuti. Ma la realtà credo sia profondamente diversa, e se dovessimo fare un parallelismo penso che il più fondato sia quello con il passaggio – fra il Settecento e l’Ottocento – da un’economia rurale ad una compiutamente industriale e manifatturiera. Come allora, ciò che sta andando in crisi non è un semplice modello di sviluppo ma un intero modo di concepire e di trattare le cose. Ed in questa prospettiva – hanno ragione gli studiosi che ho appena citato – la sfida di fronte alla quale ci troviamo è quella di ripensare la quantità e la qualità dei nostri bisogni, e l’entità ed il tipo di strumenti con cui provare a soddisfarli. Ciò che però non convince della loro analisi sono due assunti preconcetti – dunque non dichiarati e spesso inconsapevoli, perché per definizione dati per scontati – che sostengono le loro ipotesi.
Il primo è che gli esseri umani – in qualunque contesto si trovino ad operare – siano mossi sì da bisogni ma che queste loro necessità non siano (anche) incrementali. Ho sempre avuto molte perplessità sull’idea – sostenta ad esempio da Heller – che si possa distinguere (e concretamente operare di conseguenza) fra bisogni primari, compiutamente umani (quelli di sopravvivenza, di relazionalità di riconoscimento paritario, di rispetto), e bisogni secondari o artificiali o effimeri (quelli sociali, di prestigio, di autorità, di consumo e di status symbol). E’ sì una distinzione analiticamente fondata – che consente di affinare le risposte che si possono dare, oscillando fra predilezione dell’“essere” e dell’”avere” alla ricerca di un equilibrio mai compiuto e definitivo – ma nella concretezza delle cose si tratta di moventi sempre inestricabilmente miscelati. Il secondo assunto – in fondo una derivazione del precedente – è che tali esigenze possano essere governate a prescindere dalla forma storicamente determinata che hanno acquisito nel corso del tempo, e del tempo “istituzionale” della “lunga durata”, quello cioè intergenerazionale. Sin dalla più remota antichità, le persone, le loro collettività, sono andate avanti ed hanno cambiato articolando quantità e qualità, cercando insomma di avere “di più” e di averne “di meglio”. Da sempre le domande circa il “meglio” hanno fatto ripensare il “di più”, e l’hanno addomesticato e “civilizzato” secondo soluzioni anche molto differenti ma pur sempre improntate alla qualità della vita. Ma una volta acquisito questo diverso “spessore”, hanno subito dopo tentato di accrescerlo, di massimizzarlo, alcuni dicono di “ottimizzarlo” nel quadro delle opportunità e dei vincoli dati. Hanno insomma sempre cercato, ad ogni modo, di aumentarlo e di incrementarlo, facendo peraltro così riproporre nuovamente il quesito della qualità delle nuove conquiste. E così via. Pensare dunque che dall’oggi al domani – si ponga questo “domani“ nel futuro prossimo o in quello remoto (e quali sono poi le soglie dell’uno e quelle dell’altro comunque compatibili con l’intervento pratico e politico?) – sia possibile adottare misure amministrative che contengano, frenino ed invertano questa tendenza credo che sia pura utopia. Se non pura ideologia, quando chi si faccia promotore di queste proposte non consideri – come avvertono studiosi come Fitoussi – il grado di potere direttivo ed autoritario che sarebbe necessario ad una tale metamorfosi antropologica.
Da qui – con il che torniamo al tema del lavoro e concludiamo queste prime riflessioni che saranno sviluppate nei prossimi interventi, miei e spero di altri – un’ultima considerazione sulla funzionalità del diritto e delle politiche occupazionali sperimentate a livello europeo e nazionale per affrontare l’attuale paura del lavoro. L’articoliamo per punti e domande, cui chiediamo sin da ora ai nostri lettori di tentare di rispondere.
Innanzitutto contro ogni utopia e ogni ideologia – al di là del ruolo imprescindibile che esse esercitano per spingere gli uomini ad interrogarsi e ad agire – l’unico antidoto è la riflessione critica e l’azione di riforma incrementale, che procede “per tentativi, errori, apprendimento da essi e proponimento di soluzioni ragionevolmente più adatte”. Data la situazione delineata dai dati Eurostat e Istat ripercorsi sopra, quali possono essere gli interventi graduali – e tuttavia sostanziali – che potrebbero “fluidificare” i mercati del lavoro, ed in particolare quelli italiani, in modo tale che chi ne esce possa confidare nella possibilità di rientravi più facilmente e che chi vi sia all’interno possa vivere la sua eventuale fuoriuscita con maggior fiducia ed intraprendenza?
In secondo luogo, i grandi scenari – apocalittici o palingenetici – tendono sempre a perdere di vista la specificità dei contesti, dei luoghi, nei quali quelle macro-tendenze che essi considerano inevitabilmente si manifestano ma con caratteristiche da territorio a territorio anche molto diverse ed eterogenee. Di fatto, la paura del lavoro è differente in Italia da quanto non lo sia nel Regno Unito, in Germania da quanto non avvenga negli Stati Uniti, in Spagna rispetto a quel che si verifica in Danimarca. E queste differenze rispecchiano diversità nella cultura e nella mentalità dei quei popoli ma anche nei regimi normativi, convenzionali e giuridici, che regolano la domanda e l’offerta di lavoro. Se una dei principi delle strategie di intervento di tipo incrementale – per tentativi ed errori – è l’apprendimento, la sperimentazione ma anche il coraggio di sperimentare, diffidando prima di tutto della presunta oggettività delle proprie soluzioni, perché in certi luoghi i risultati ottenuti nel democratizzare l’acceso al bene “lavoro” sono considerati “buone pratiche”, e quali di esse potrebbero essere tentate, pur con i dovuti adattamenti, in quelle realtà maggiormente in affanno?
Ed infine, come terzo punto, perché considerare il Diritto – nel nostro caso specifico, il Diritto del lavoro – come una strumentazione meramente formale e sostanzialmente incapace di anticipare percorsi di governo e di gestione del mondo professionale nuovi ed in anticipo sulle concezioni invalse nelle Istituzioni economiche? La regola – a meno che non si sposi una visione impersonale tipica dell’approccio del “tecnicismo giuridico” – è sempre da un lato la traduzione scritta o convenzionale (ad ogni modo, cogente nell’orientare i modi di fare e di agire) della cultura e degli equilibri di potere dominanti ma allo stesso tempo – ideata ed amministrata da persone in carne ed ossa – è sempre sfidata dall’anomalia e della “devianza” di individui, gruppi e fenomeni collettivi “inattesi”. E come tale talvolta stirata nella sua interpretazione a coprire fattispecie imprevedibili ma sempre più frequenti, altre volte modificabile e modificata ad aprire nuovi spazi di intervento conformi, ed a consentire la maturazione di sensibilità collettive – al momento apparentemente minoritarie – in una direzione piuttosto che in un’altra. Dietro la norma “anticipativa”, traspaiono sempre rapporti ed equilibri asimmetrici di potere ma più frequentemente, in questo caso, si verifica il riconoscimento “equo” di quel polo di autorità magari al momento più debole ma portatore di diritti e di libertà un domani generalizzabili e con una maggiore capacità adattiva oggi misconosciuta. È il tema, in buona sostanza, del superamento del dualismo fra insider ed outsider nel mercato del lavoro italiano.

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