Nov 8

Liquidità. Il percorso di scivolamento nella povertà

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di Filippo Buccarelli

Estratto di un contributo per la Caritas di Pistoia pubblicato anche su pratichesociali.

Da qualche giorno su Youtube – il network internazionale di condivisione di video e documenti filmati – circola una breve intervista di circa una decina di minuti ad un uomo intorno ai cinquantacinque anni, da settimane costretto a vivere, dopo la perdita della sua abitazione, in macchina all’aperto, insieme al suo cane. Si tratta un piccolo cortometraggio quanto mai interessante – agli occhi del sociologo, il più possibile privi di valutazioni prescrittive e politiche – perché, se lo si guarda bene, è quanto mai rappresentativo di ciò che gli attuali teorici delle nuove povertà intendono con il concetto di processo di vulnerabilizzazione (Paugam 2009, Castel 2011, Brandolini e altri 2009, a cura di). Innanzitutto l’uomo spiega di essere stato in passato il titolare di una galleria d’arte, che purtroppo è stato costretto a chiudere a causa dell’attuale crisi economica. Quasi nello stesso periodo dice di aver perso la madre e – rimasto solo e senza lavoro – di essere stato sfrattato. Così, l’unico posto che gli è rimasto, dice, è stata la propria automobile, ed il solo suo compagno di vita il cane.

Se lo si guarda bene, pur a distanza di tempo, l’aspetto è ancora dignitoso ed elegante. La povertà, quando conclama — e quando lo fa con un susseguirsi tanto veloce di rotture biografiche (la disoccupazione, la perdita di una persona cara, quella di un alloggio) — segna la mente, il pensiero e il corpo. E’ stupefacente quanto ciò che sembra di più radicato ed immutabile (pur nella sua mutabilità biologica) come il corpo venga al contrario rapidamente plasmato dal cambiamento del suo ambiente naturale, sociale e culturale. Già Lazarsfeld (con Jahoda e altri 1986) — ormai quasi ottanta anni fa — studiando gli effetti che la chiusura dell’unica fabbrica della cittadina di Marienthal (un nome fittizio di una località inglese) aveva avuto e stava avendo sugli equilibri esistenziali e su quelli psicosomatici delle persone rimaste senza un impiego e praticamente destinate nell’immediato a non trovarne un altro, già Lazarsfeld allora – dicevamo – aveva notato come l’improvvisa situazione di indigenza non si limitava affatto al solo fattore economico e retributivo ma incidesse pesantemente sulle relazioni affettive, su quelle amicali e soprattutto sulla stessa autostima dei singoli. Non solo ma anche funzioni apparentemente oggettive come la percezione della realtà, il senso del tempo e dello spazio, sembravano profondamente alterate. E secondo un timing, una cadenza ritmata che manifestava una sequenza sufficientemente tipica: all’inizio il dolore e la delusione, in un secondo momento la voglia di riscatto e la sensazione di fiducia di poter risolvere il problema al più presto, quindi, come terzo momento, dopo lo scontro con i primi fallimenti nella ricerca di un nuovo posto e nonostante l’impegno profuso, un senso graduale di smarrimento e di sfiducia, sino alla fase estrema di una pressoché totale demoralizzazione (Park 1967), ovvero l’oggettiva incapacità del soggetto di disegnare giorno dopo giorno una traiettoria di vita che rivelasse ai suoi occhi un qualche senso ed un qualche significato colto come portante, pregnante, importante. Non è soltanto una questione psicologica, interiore, di testa. Tutto al contrario. E’ innanzitutto una questione di relazioni, di così detto capitale sociale (Bagnasco e altri 2001). E’ una questione insomma di legami considerati dalla persona come strutturali per la sua identità e per l’orizzonte percepito delle sue possibilità. Le difficoltà economiche minano gli affetti e le amicizie, e queste cerchie, che presiedono alla costruzione ed alla confidenza del senso di sé, scoraggiano sempre di più dalla ricerca di una nuova affermazione sul piano professionale, qualunque essa sia, il tutto — per finire — in un circolo vizioso che indebolisce gradualmente l’autostima e la capacità di copying, di fronteggiamento degli impegni più o meno normali della vita quotidiana.

Ad ogni modo quell’uomo nel video non aveva ancora raggiunto questi ultimi stadi. Certo, a vederlo sbarbato ed ancora ben vestito, ciò che colpiva era — nonostante il sorriso e la fluidità nell’espressione verbale, ricordiamo che era il titolare di una galleria d’arte, dunque si presume una persona culturalmente e scolasticamente formata — una certa piegatura del volto, quei piccoli solchi e quelle piccole sfumature che rivelano all’improvviso, in una forma appena trasfigurata, le espressioni di quei giovani ragazzi di borgata tante volte riprese e rese nella loro rude autenticità nei film e nei documentari sociologici e di costumi di un poeta come Pier Paolo Pasolini. Ma — asserisce con orgoglio il protagonista di questa storia al giornalista che lo intervista — io non voglio perdere la mia umanità. Ogni giorno mi sveglio col sole, dopo essere andato a dormire in macchina col mio cane la sera presto, diversamente da quanto ero sempre stato abituato a fare, e mi reco da qualche amico per una doccia e per farmi la barba, e poi alla ricerca di un impiego. I servizi per l’impiego, i colloqui col tutor, le domande e le visite fatte ai datori di lavoro. Ma da loro sempre la solita risposta: sei troppo qualificato per questo genere di impiego, oppure sei troppo anziano per svolgere questa mansione, anche nel caso si tratti di una mansione di fatica o esclusivamente manuale. Oggi — conclude ad un certo punto — l’età ultima per trovare lavoro è quella dei trenta, dei trentacinque anni.

Questa testimonianza — dicevamo — è ai nostri giorni quanto mai esemplificativa di quelle che sono le nuove povertà coi quali enti statali, amministrazioni pubbliche, associazione di volontariato ed organizzazioni del Terzo Settore si trovano ad avere a che fare. Le caratteristiche le conosciamo ormai bene (Negri e Saraceno 1996; Meo 2000; Bucchi e Neresini 2001, a cura di; Saraceno 2004, a cura di). Nella povertà non ci si ritrova improvvisamente. Nella povertà si scivola. E questo slittamento è spesso impalpabile, a volte ben poco chiaro alle stesse persone che stanno smottando, figuriamoci a quelle che sono preposte al loro aiuto. Si deraglia per una concomitanza di concause, alcune oggettive, altre — come abbiamo visto — più legate all’introspezione e a quel misterioso universo costituito dal senso di identità e dal sentimento di fiducia. Ma entrambe fra loro strettamente legate.

Anche le nuove povertà si diluiscono (Bauman 2009). Sia nel senso che si processualizzano, che sono il risultato di piccoli scostamenti di cui con difficoltà ci si avvede, sia nel senso che — date le circostanze sopra accennate ma messe meglio a fuoco in altra parte di questo rapporto — diventano trasversali e possibili per chiunque, o per lo meno per la gran parte di noi. Oggi non basta più avere un lavoro per vaccinarsene. La flessibilizzazione produttiva moltiplica — anche di necessità — l’impiego temporaneo e contingente, e con esso la retribuzione quasi ad intermittenza. Un contratto formale sempre più frequentemente non è sufficiente — per salario e per mancanza di solide garanzie e tutele per il singolo e per la famiglia che gli sta dietro — a salvaguardare dalla vulnerabilità, e questo è vero soprattutto per le donne, fra le quali i lavori atipici sono i più diffusi (Bimbi e Trifiletti 2006).

Ma la povertà si fluidifica anche nella sua diminuita visibilità. Nel video, il protagonista sostiene che alla Caritas non può andare perché… semplicemente non può lasciare solo il suo cane. Sembra una motivazione apparentemente assurda. Ma nelle vicende umane nulla è assurdo, e chi vuol capire (ed intervenire) deve tentare il più possibile di comprendere le ragioni di chi parla e si confida, deve cercare di cogliere la ragionevolezza delle sue motivazioni, che le condivida o meno, che gli sembrino più meno sensate. L’attaccamento ad un animale vale quanto ad esempio il senso di vergogna che impedisce a molte persone in difficoltà di recarsi presso i Centri di ascolto e di aiuto, o di recarsi alla mensa pubblica o privata per i poveri perché questa non corrisponde all’immagine maturata in tanti anni agli occhi di chi la povertà sta imparando o ha imparato a viverla sulla sua pelle. Le nuove fragilità, le nuove indigenze, sono fluide perché sfuggono sempre di più ai punti, ai nodi di contatto, che – come braccia tese a chi è trascinato suo malgrado da un fiume ormai in piena — si tendono a coloro che si trovano in condizione di bisogno e che rischiano di affogare. Sia che queste braccia siano quelle degli assistenti sociali e dei volontari, sia che siano invece quelle di coloro che studiano le fragilità dei nostri giorni per meglio consigliare riguardo alle politiche sugli interventi da intraprendere.

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