di Filippo Buccarelli
Estratto di un contributo per la Caritas di Pistoia pubblicato anche su pratichesociali.
Da qualche giorno su Youtube – il network internazionale di condivisione di video e documenti filmati – circola una breve intervista di circa una decina di minuti ad un uomo intorno ai cinquantacinque anni, da settimane costretto a vivere, dopo la perdita della sua abitazione, in macchina all’aperto, insieme al suo cane. Si tratta un piccolo cortometraggio quanto mai interessante – agli occhi del sociologo, il più possibile privi di valutazioni prescrittive e politiche – perché, se lo si guarda bene, è quanto mai rappresentativo di ciò che gli attuali teorici delle nuove povertà intendono con il concetto di processo di vulnerabilizzazione (Paugam 2009, Castel 2011, Brandolini e altri 2009, a cura di). Innanzitutto l’uomo spiega di essere stato in passato il titolare di una galleria d’arte, che purtroppo è stato costretto a chiudere a causa dell’attuale crisi economica. Quasi nello stesso periodo dice di aver perso la madre e – rimasto solo e senza lavoro – di essere stato sfrattato. Così, l’unico posto che gli è rimasto, dice, è stata la propria automobile, ed il solo suo compagno di vita il cane.
Se lo si guarda bene, pur a distanza di tempo, l’aspetto è ancora dignitoso ed elegante. La povertà, quando conclama — e quando lo fa con un susseguirsi tanto veloce di rotture biografiche (la disoccupazione, la perdita di una persona cara, quella di un alloggio) — segna la mente, il pensiero e il corpo. E’ stupefacente quanto ciò che sembra di più radicato ed immutabile (pur nella sua mutabilità biologica) come il corpo venga al contrario rapidamente plasmato dal cambiamento del suo ambiente naturale, sociale e culturale. Già Lazarsfeld (con Jahoda e altri 1986) — ormai quasi ottanta anni fa — studiando gli effetti che la chiusura dell’unica fabbrica della cittadina di Marienthal (un nome fittizio di una località inglese) aveva avuto e stava avendo sugli equilibri esistenziali e su quelli psicosomatici delle persone rimaste senza un impiego e praticamente destinate nell’immediato a non trovarne un altro, già Lazarsfeld allora – dicevamo – aveva notato come l’improvvisa situazione di indigenza non si limitava affatto al solo fattore economico e retributivo ma incidesse pesantemente sulle relazioni affettive, su quelle amicali e soprattutto sulla stessa autostima dei singoli. Non solo ma anche funzioni apparentemente oggettive come la percezione della realtà, il senso del tempo e dello spazio, sembravano profondamente alterate. E secondo un timing, una cadenza ritmata che manifestava una sequenza sufficientemente tipica: all’inizio il dolore e la delusione, in un secondo momento la voglia di riscatto e la sensazione di fiducia di poter risolvere il problema al più presto, quindi, come terzo momento, dopo lo scontro con i primi fallimenti nella ricerca di un nuovo posto e nonostante l’impegno profuso, un senso graduale di smarrimento e di sfiducia, sino alla fase estrema di una pressoché totale demoralizzazione (Park 1967), ovvero l’oggettiva incapacità del soggetto di disegnare giorno dopo giorno una traiettoria di vita che rivelasse ai suoi occhi un qualche senso ed un qualche significato colto come portante, pregnante, importante. Non è soltanto una questione psicologica, interiore, di testa. Tutto al contrario. E’ innanzitutto una questione di relazioni, di così detto capitale sociale (Bagnasco e altri 2001). E’ una questione insomma di legami considerati dalla persona come strutturali per la sua identità e per l’orizzonte percepito delle sue possibilità. Le difficoltà economiche minano gli affetti e le amicizie, e queste cerchie, che presiedono alla costruzione ed alla confidenza del senso di sé, scoraggiano sempre di più dalla ricerca di una nuova affermazione sul piano professionale, qualunque essa sia, il tutto — per finire — in un circolo vizioso che indebolisce gradualmente l’autostima e la capacità di copying, di fronteggiamento degli impegni più o meno normali della vita quotidiana.