di Filippo Buccarelli
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Alle soglie del 2000, il Consiglio d’Europa inaugurò la sua strategia di sviluppo: fare del Vecchio Continente, entro il 2020, una compiuta società della conoscenza, ovvero una realtà sociale capace di monitorare le sue trasformazioni storiche, di governarle democraticamente in vista di programmi di modernizzazione sostenibili ed a misura d’uomo e di promuovere così l’emancipazione materiale ed intellettuale delle persone, assicurando loro le opportunità di una loro autodeterminazione, di una loro realizzazione individuale, di una effettiva costruzione della propria biografia liberamente scelta. Investire nella conoscenza non significava soltanto scommettere sulla riflessività collettiva e personale ma promuovere le condizioni per una valorizzazione delle proprie capacità e della propria creatività, facendo tesoro di questa inventività informata e professionalmente assistita anche nel campo dell’economia e della produzione.
A distanza di alcuni anni quel progetto sembra essere in gran parte naufragato. I processi della globalizzazione materiale e culturale appaiono più subiti che governati. Il modo del lavoro ha proseguito sulla strada della frammentazione e della balcanizzazione, con nuove disuguaglianze fra lavoratori del nord e del sud del mondo, fra Paesi “manovali” e Paesi di progettazione e di programmazione, fra aree manuali e di fabbricazione e aree di consumo e di agiatezza ostentata. Fratture sociali ed economiche che non si limitano tuttavia allo scenario mondiale ma che interessano sempre di più anche gli stessi paesi di un continente o dell’altro: la distanza fra quartieri altolocati e le bidonville di una megalopoli sudamericana o asiatica o sudafricana è la stessa, per molti aspetti, che separa ad esempio i centri commerciali delle metropoli americane ed europee e le periferie disagiate delle stesse.